Prima del monastero di San Pietro: la breve vita di Santa Croce
Il documento più antico citato negli inventari settecenteschi è una bolla di Gregorio IX del 22 giugno 1228, con la quale vengono concessi alcuni privilegi al Capitolo della basilica di San Pietro di Roma. Il breve testo non cita espressamente alcun luogo, ma la sua presenza potrebbe rappresentare una premessa istituzionale legata al ruolo del Capitolo di San Pietro in Vaticano, da cui dipenderanno le fondazioni religiose del Trecento.
Il 3 maggio 1326 il Capitolo di San Pietro concesse, su richiesta del frate agostiniano Gentile da Foligno e di altri religiosi (tra cui i campellini fra Pace e Consolo), l’autorizzazione a fondare sotto la regola agostiniana un monastero intitolato a Santa Croce nel territorio di Campello, in località chiamata Seianum o Sterleta.
Il terreno e gli edifici erano stati donati alla basilica vaticana dal trevano Vitale Petroni, che concesse indulgenze a chi avesse sostenuto la costruzione del monastero.
La prima fondazione nota a Campello è dunque legata a una comunità di monaci, che tuttavia scomparì presto dalle fonti: nessun documento successivo ne attesta la continuità e probabilmente la vita del monastero fu di breve durata.
Il Monastero di san Pietro e la scissione di Agnesuccia di Lorenzo
Pochi decenni dopo la fondazione di Santa Croce, nacque il monastero di San Pietro, eretto da fra Pace di Morichitto da Campello con l’autorizzazione del Capitolo di San Pietro in Vaticano (1330–1332).
Il monastero prosperò grazie a numerose donazioni, tra cui quella di Lorenzo di Nicola (1385), che lasciò terre tra Poreta e Bazzano, forse legate all’ingresso della figlia Agnesuccia tra le monache.
Nel 1397 Lorenzo di Nicola la nominò unica erede, quando questa era ancora parte della comunità di san Pietro. Tre anni più tardi, Agnesuccia ottenne da papa Bonifacio IX l’autorizzazione a fondare nella casa paterna un nuovo monastero dedicato a San Giovanni Battista, dove potersi ritirare insieme a tre consorelle sempre sotto la regola benedettina, riconosciuto l’anno seguente anche dal vescovo di Spoleto, che concesse una speciale indulgenza a chi avesse contribuito alla sua costruzione.
Nonostante le ragioni del suo abbandono restano ignote, la causa va ricercata nella rivendicazione dell’eredità paterna da parte di Agnesuccia, a cui le monache di san Pietro si opposero fermamente.
Le contese per l’eredità paterna furono risolte nel 1403 con la restituzione delle terre a San Pietro, mentre Agnesuccia conservò la casa paterna, ormai trasformata nel convento di San Giovanni Battista di cui fu ordinata Badessa, e il terreno adiacente destinato a diventare il chiostro.
Vicende successive e unificazione dei due monasteri
Dopo la partenza di Agnesuccia, il monastero di San Pietro attraversò anni difficili: nel 1407 entrò in contrasto con il vescovo di Spoleto per questioni fiscali legate ai terreni donati, che le monache dovettero riscattare pagando 35 fiorini d’oro. Da questo momento iniziò un lento declino, con un numero sempre minore di religiose: nel 1479 l’elezione della badessa Santuccia avvenne alla presenza di sole tre monache.
Al contrario, il monastero di San Giovanni Battista conobbe una lunga stagione di prosperità. Grazie alla saggia amministrazione della badessa Agnesuccia, che rimase a capo della congregazione almeno fino al 1450, e al sostegno di numerosi benefattori, crebbe rapidamente sia in ricchezze sia in vocazioni. Il favore papale contribuì inoltre a consolidarne il prestigio, anche nelle dispute con gli abitanti di Campello.
Tra la fine del XV secolo e il XVI secolo le notizie si diradano, complice la perdita di molti documenti d’archivio, ma nel 1585 il commissario Giovanni Battista Corrado, incaricato dal Capitolo di San Pietro di riscuotere i censi provenienti dall’Umbria, rilevò una situazione di disparità: se nel convento di San Giovanni Battista vivevano ben quattordici monache, in quello di San Pietro se ne contavano appena dieci, costrette a vivere in una condizione di estrema povertà. Fu così che nel 1604 il vescovo di Spoleto decise di unire i due monasteri sotto la doppia intitolazione ai Santi Giovanni Battista e Pietro, creando in un unico complesso e, quattro anni più tardi, una nuova chiesa.
Soppresso nel 1810, il monastero fu acquistato nel 1935 dalla Congregazione dei Padri Barnabiti, che lo trasformò in una struttura per i loro studenti di teologia. Fu poi restaurato a seguito del terremoto del 1997 e riaperto come Casa di accoglienza e di preghiera.
Struttura architettonica dei due conventi uniti dalla chiesa del 1604
La parte più antica del complesso corrisponde al monastero intitolato a san Pietro, di cui si conserva l’originale ingresso con il portale in pietra locale. All’estremità si trova la chiesa intitolata a santa Maria degli Angeli, come riportano alcuni degli affreschi conservati al suo interno.
La chiesa del monastero di S. Giovanni Battista presentava l’altare appoggiato alla parete dove c’è oggi l’affresco del Crocifisso e si estendeva fino a una stanza posta a ridosso della scalinata che conduce al piano superiore, dove si conservano alcune tracce di affreschi.
Lunghissimi e irregolari corridoi fanno da collegamento tra i due corpi originali, uniti architettonicamente e spiritualmente anche nella chiesa costruita nel 1608 nel terreno al centro dei due monasteri.
All’interno, l’altare maggiore in stile barocco conserva una tela con l’Adorazione dei Magi, opera di un pittore toscano del XVII, mentre i due laterali mostrano, a destra, una tela con sant’Elena, san Carlo e sant’Antonio; a sinistra, una Madonna col Bambino e san Filippo Neri, entrambe eseguite nel XVIII secolo.
All’interno del complesso sono conservate interessanti testimonianze artistiche medievali e rinascimentali tra cui un Crocifissione, opera del Maestro di Fosse, tra due angeli e con in basso quattro santi, sovrastato da una Natività e da un altro affresco che raffigura il Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria.
Il complesso conserva inoltre alcuni affreschi di grande importanza, come quello che raffigura Maria col Bambino in trono attribuito al Maestro di Eggi, o quello che ritrae una Madonna che accoglie sotto il suo manto alcune monache e San Francesco, attribuito a Lo Spagna.